sabato 25 febbraio 2017

Un assaggio del giallo "Un vecchio tappeto persiano": un furto strano


In questo fine settimana voglio farvi leggere un estratto dei primi due gialli della nuova serie del commissario Cantagallo che furono pubblicati nel 2014 da Cristian Cavinato della Cavinato Editore International di Brescia. All'editore piacquero subito e spero che piacciano anche a voi. 

Il primo giallo di questo fine settimana è "Un vecchio tappeto persiano", un giallo lungo di paese dove le indagini si svolgono a Collitondi. In questo giallo avvengono degli strani furti che si intrecciano con dei misteriosi delitti dai contorni oscuri. Tutto sembra normale, furti e delitti di normale amministrazione. Tutto sembra filare liscio ma c'è qualcosa che non quadra per il commissario Cantagallo. Il poliziotto dopo avere analizzato attentamente tutti i fatti accaduti ho scoperto un fatto fondamentale che determinerà la svolta nelle indagini e aprirà la pista investigativa verso l'insospettabile colpevole.

All'inizio farete la conoscenza di due ladri di polli che sono i primi ingranaggi di un delicato e complicato meccanismo che l'assassino ha costruito per porre fine a tutti i suoi problemi. Inconsapevolmente sono stati inseriti in un congegno programmato per uccidere e da questo saranno a loro volta uccisi per mano di un brutale assassino che, pur di raggiungere il suo obiettivo di morte, non esiterà ad eliminare quegli scomodi testimoni. Tutto inizia con un semplice furto in una villa alla periferia del paese che sarà inzialmente sottovalutato anche dallo stesso commissario Cantagallo, poi accadranno altri delitti che dovranno essere accuratamente soppesati dal poliziotto toscano.  

Giallo lungo, estratto lungo e spero che vi piaccia.
Buona lettura a tutti voi. 

P.S. Non mi nascondo dietro a un dito: "Comprate, comprate, comprate i gialli del commissario Cantagallo, in ebook e cartaceo, e mi raccomando passate parola!".




"Capitolo uno







    "La notte porta consiglio" diceva un proverbio, ma chi l’aveva detto? A Cantagallo non capitava mai. Gli bastava sfiorare la federa del cuscino per piombare nel sonno più profondo. Non aveva mai sognato consigli o suggerimenti. E soprattutto non lo aveva mai desiderato prima di addormentarsi. Si perse dietro a questo pensiero mentre dalla sua terrazza osservava l’orizzonte, dove l’astro notturno stentava a farsi vedere, chissà poi perché. Se valeva il detto: “Gobba a ponente, luna crescente”, quella notte poteva valere anche quello che si era inventato testé: “Plenilunio a levante, luna riluttante”.
    La luna piena indugiava fra le mura del Cassero, sopra la pendice orientale del Colle Tondo. Come una grande diva, si faceva attendere. Non voleva farsi vedere perché la sera prima, alla tv, uno scienziato saputello aveva detto che sarebbe apparsa più grassa o più grossa, non ricordava bene. Il saputello aveva aggiunto che quel particolare effetto era dovuto a un cambiamento astrale, eccetera eccetera eccetera. Saputello di uno scienziato, tutto chiacchiere e occhiali! Un pettegolezzo bello e buono, altroché! Ma che cambiamento e cambiamento, era solo un po' più in forma, ecco tutto. Se non era tirata in ballo per vampiri o lupi mannari, c'era sempre uno scienziato di turno che metteva in giro una maldicenza. E da chi era stato imbeccato? Ma certo, da quelle sue cugine alla lontana parecchio: le stelline dei segni zodiacali. Invidiose, imbrillantinate e impertinenti che da sempre influenzavano i miseri mortali. Mentre ci rimuginava, a un tratto, lungo le mura furono accese delle fiaccole, le cui fiamme avrebbero reso ancor più suggestivo il chiaro di luna. Quello era il momento giusto. Ruppe gli indugi e si mostrò in tutto il suo splendore. Nel sollevarsi notò, nella parte centrale del colle, un’ampia zona illuminata che brulicava di persone. Non capiva tutto quel gran fermento, proprio la sera di quel ventuno di giugno. Rimase lì, un po’ perplessa. Pensava e ripensava, ma quella data non le faceva venire in mente proprio niente. Si rassegnò, senza preoccuparsene troppo. D’altronde la sua natura lunatica non la obbligava di ricordare tutti gli avvenimenti del calendario e non le dette importanza. Ma non era l’unica a non essere interessata.
    Dalla parte opposta, sul Colle al Vento, due tipi loschi dal goffo aspetto da ladri di polli trafficavano all’interno di una villetta isolata.
    Uno, spilungone e ingobbito con l’aria a pesce lesso e dall’accento toscano, si muoveva a tentoni nel buio pesto di uno stretto corridoio. Chiamava a voce alta il compare agitando una torcia spenta. 
    «Ignazio! Ignazio! Ignaziooo! Dove sei?»
    L’altro, bassotto e tarchiato dallo sguardo scaltro e dall’accento siciliano, armeggiava al portoncino della casa. Tentava di calmare il compare senza fare confusione. Anche lui aveva in mano una torcia spenta e si tratteneva dal dargliela in testa.
    «Loris, scimunito! E dove devo essere? Sono qua, a chiudere la porta. Non fare casino e stai muto, che ti sentono da fuori. Fai quello che ti dico io, altrimenti, a schifìo finisce.»
    «Scusa, Ignazio. Allora faccio quello che dici te.»
    Lo spilungone si tranquillizzò, ma andò a sbattere contro un mobile.
    «Ahia che botta! Non si vede un tubo!»
    «Scimunito! Ora puoi accendere la torcia. Le finestre sono chiuse e nessuno ci può vedere da fuori. Capisti?»
    Il toscano dopo averci pensato un po’ si convinse e l’accese.
    «Ecco fatto. Ora sì che vedo bene!»
    «E stai muto!» trattenendo un'imprecazione e sollevando gli occhi al cielo.
    I due s’incamminarono verso il soggiorno della casa con il fascio oscillante delle torce che illuminava il loro passaggio. Poi arrivati, si fermarono. Il siciliano controllò un foglio che aveva in mano.
    «Loris, pigliasti i sacchi grandi?»
    Silenzio.
    Il bassotto era incavolato. Stava per perdere la pazienza. Teneva serrata l’impugnatura della torcia con il fascio di luce rivolto verso l’alto e puntava dritto la testa dello spilungone.
    Sembrava il potente Joda con la spada laser attivata pronto a sferrare il colpo contro il diabolico Dart Fener.
    «Loris, allora?! Ma che ti sei rimbambito?»
    Lo spilungone si era imbambolato. Osservava a bocca aperta il ricco arredamento della stanza. Non doveva avere mai visto una casa così. Poi si riprese e con un tono di superiorità, degno del Signore del Lato Oscuro, rispose al bassotto.
    «Ignazio, ma non mi hai detto che devo stare zitto?»
    «Loris, scimunito! Ti dissi di non fare casino. Non ti bastò che l’ultima volta ci arrestarono per colpa tua. Ricordasti?»
    «Sì, Ignazio. Ma stavolta in casa non c’è nessuno. Allora, starò zitto.»
    «Mih! Quanto sei duro!» e gli assestò una manata “stellare” sulla nuca.
    «Ahia, che botta! Mi fai vedere le stelle.»
    Ovviamente.
    «Se ti faccio una domanda, mi devi rispondere. Ora capisti?»
    «Ora ho capito» mentre si teneva la testa per la botta.
    «Bravo.»
    Lo jedi e il Signore Oscuro si erano finalmente intesi.
    «Loris, pigliasti i sacchi grandi?»
    «Sì, Ignazio.»
    Silenzio.
    «Me lo dai un sacco grande, sì o no?»
    «Ma non me l’hai mica chiesto! Prima hai detto: “Se ti faccio una domanda, mi devi rispondere”. Io ti ho risposto e ti ho detto sì. Cosa c’è che non va bene?! Hai capito?»
    «Ho capito! Ho capito! Dammi il sacco grande!»
    «Oh, vedi che hai capito! Ecco il sacco grande, capo!»
    «E non chiamarmi “capo”! Quante volte te lo devo dire! Poi, per abitudine, lo dici quando ci sono altre persone e…»
    «…a schifìo finisce!»
    «LORIIIS!»
    «Non parlare a voce alta che ti sentono da fuori, Ignazio.»
    «E non mi prendere per il culo, scimunito!» e gli assestò una gomitata nel fianco.
    «Ahia, che botta! Mi hai fatto male» piagnucolò l’altro piegandosi in due.
    Il bassotto era sfinito. Con lo spilungone era sempre la stessa storia e non poteva farci niente. Per certe vicende di parentela si era ritrovato come compare quel cugino toscano di terzo grado. Non era un pozzo di intelligenza ma dopo averci lottato un po’ faceva tutto quello che gli veniva detto di fare, ubbidiente come un cane al guinzaglio.
    Il siciliano si tratteneva da dargli un cazzotto in bocca. Non ce la faceva: era come fare del male a un bambino cretino, anzi scimunito.
    «Per te c’è un proverbio delle mie parti che dice: “Mistura, metticinni ‘na visazza, falla comu la vua, sempri è cucuzza!”.»
    «Che vuol dire?»
    «Ti spiego. Dalle mie parti, sta a significare che una zuppa di zucca anche se la mescoli, se ci metti altre verdure e la fai come ti pare, sempre di zucca ha il sapore. Allora, se uno è uno scimunito anche se gli dici di fare le cose per bene, glielo dici e glielo ridici un’altra volta sempre scimunito rimane. Capisti?»
    «Allora, Ignazio, è come quando noi toscani si dice: “Non si può cavare il sangue da una rapa”.»
    «Bravo, Loris. Capisti.»
    Il lavoro dei due proseguiva. Il siciliano leggeva la lista degli oggetti scritta su un foglio, osservava gli oggetti, li sceglieva e poi indicava al toscano di metterli dentro i sacchi. Alla fine Ignazio prese i tappeti che erano scritti sulla lista e li portò nel furgone. Avvertì il compare che, dopo aver preso gli oggetti della lista, sarebbero rientrati nella casa per prendere altre cose, ma per loro. Si raccomandò di prendere solo roba preziosa e non i soliti souvenir come faceva abitualmente.  Loris, infatti, non capiva assolutamente nulla del valore degli oggetti. Lo spilungone lo rassicurò annuendo col capo e dicendogli di non preoccuparsi perché stavolta avrebbe scelto un oggetto veramente prezioso. Il bassotto gli ricordò che dovevano sbrigarsi perché c’era da fare un altro lavoretto in paese. Il siciliano era nel soggiorno per scegliere degli oggetti d’argento. Il toscano era nello studio ad osservare tutto l’arredamento per capire cosa potesse portare via. Dopo un po’ lo spilungone era di ritorno, tutto soddisfatto e con un tappeto arrotolato sulle spalle. Era raggiante come se avesse trovato un tesoro.
    «Oh, Ignazio! Vu cumprà? Prezzo bono, costa poco!»
    «Loris, ma proprio scimunito sei? Che pigliasti?»
    «È un tappeto bellissimo. Varrà un sacco di soldi! Lo posso prendere?»
    «Prendilo. Caricalo sul furgone insieme all'altra roba e andiamo via alla svelta. I padroni potrebbero arrivare da un momento all’altro e se ci trovano…»
    «…a schifìo finisce!» concluse l’altro, sghignazzando.
    «Loriiis! Grandissimo cornuto!»
    Il siciliano, d’impeto, cercò di assestargli un calcio nel culo ma non ce la fece perché lo spilungone aveva capito la malaparata e si era di poco allontanato. La gamba robusta ma corta non riuscì ad arrivare al fondo schiena del compare. Il toscano schivò la pedata e, tappeto in spalla, prese la corsa verso l’uscita fra le imprecazioni dell’altro che lo inseguiva.

    Intanto altre attività fremevano nella casa della famiglia Cantagallo. Era San Luigi ed era il giorno del compleanno del figlio del commissario. Abitualmente si riunivano insieme alla famiglia della cognata del commissario, i Benincasa. Cenavano, tagliavano la torta e poi guardavano i fuochi d’artificio in onore del santo patrono. Era una delle poche occasioni per ritrovarsi insieme a Giovanni, Olga e al loro unico figlio, Sergio, coetaneo di Luigi.
    I fuochi d’artificio sul Colle Tondo iniziavano sempre in orario, alle dieci di sera spaccate. Mancava poco all’ora d’inizio.
    «Venite fuori. Fra poco dovrebbero iniziare!» disse il commissario, rivolto al resto della compagnia che era seduta nel soggiorno.
    «Arriviamo» risposero in coro gli altri, alzandosi.
    Nell’aria notturna, in lontananza, una luce bianca sfavillante squarciò l’oscurità del cielo sopra la Fortezza Medicea, arroccata in cima al colle dove riposavano i resti delle case medievali del paese.
    Seguì un sibilo assordante.
    «Ci siamo! Occhio al botto d’inizio» esclamò Luigi, tutto eccitato.
    Appena finì la frase un boato assordante riempì la vallata.
    «È il botto di San Luigi…» biascicò Sergio, per niente emozionato.
    Tutti i componenti delle due famiglie si misero appoggiati con i gomiti al davanzale della terrazza. Si preparavano ad assistere allo spettacolo pirotecnico collitondese dell’anno.
    I botti di San Luigi erano un evento per tutta la Val Marna.
    Il cielo buio, di volta in volta all’esplodere di ogni fuoco d’artificio, s’illuminava con il riflesso dei colori sprigionati dal botto. Alcuni erano splendidi, come quello chiamato “Cascata di Stelle” dove una pioggia di migliaia di lunghissimi raggi dorati ricadeva verso il basso, con un effetto rallentato che simulava una gigantesca cascata del colore dell’oro. Negli ultimi anni la “Cascata” era sempre presente e ogni volta suscitava stupore e meraviglia.
    «Babbo! Babbo!» riprese Luigi eccitato. «Fra poco arriva quello bello, lo sento!»
    «Arriva, arriva. C’è sempre tutti gli anni» fece Sergio annoiato.
    E puntuale la “Cascata” si manifestò in tutta la sua bellezza.
    «Ogni anno è sempre più bello!»
    «Per me, è sempre lo stesso.»
    I due cuginetti si guardavano storto.
    «Buoni, voi due» disse Olga che aveva già annusato aria di litigio fra i due cuginetti che, nonostante facessero le medie, trovavano sempre qualcosa per cui litigare come due bambini piccini. «Guardate i fuochi e non bisticciate.»
    I fuochi d’artificio si conclusero, come da tradizione,  alle dieci e mezzo. Tre botti assordanti seguiti da un silenzio assoluto fecero capire a tutti che lo spettacolo era finito.
    L’atmosfera magica com’era arrivata, se n’era andata.
    Rimasero a parlare un po’ in terrazza per godersi il fresco. Poi lo squillo del telefono di casa risvegliò i pensieri del padrone di casa.
    «Pronto, commissario Cantagallo.»
    «Sono Nicoletta. Mi dispiace disturbarla proprio durante il compleanno di suo figlio, ma hanno denunciato un furto.»
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